Articolo di Filiberto Agostini per Padova e il suo territorio
Sulla ‘follia di guerra’, come ben precisato alcuni decenni or sono da Paolo Sorcinelli, si è appuntata l’attenzione egli psichiatri sin dai tempi del conflitto russo-giapponese del 1904-1905. In Italia una letteratura sull’argomento cominciò ad apparire intorno al 1907 e, in maniera più accentuata, sull’onda (anche emotiva) della campagna militare di Libia. In Europa le analisi sulle “psiconevrosi di guerra”, però, destarono un interesse sempre più crescente negli anni della Grande guerra.
In Italia secondo stime ufficiali il servizio neuropsichiatrico nazionale accolse, nel suo insieme, circa 40.000 militari. Il fenomeno della vera o presunta pazzia dei militari tra il 1915 e il 1918 costrinse, insomma, medici e psichiatri prima e istituzioni militari poi, a valutare le pratiche più adatte per far fronte alla diffusione su larga scala di una patologia specifica – le appena citate nevrosi di guerra – che le consolidate e, sino ad allora forse abusate, categorie di predisposizione, atavismo e degenerazione non riuscivano a spiegare. Non a caso nelle aule universitarie di molte nazioni europee era diffusa all’epoca la radicata convinzione che la malattia mentale fosse una patologia del cervello, di cui ancora non si conoscevano con chiarezza cause e meccanismi.
Dal punto di vista meramente storiografico, esiste oggi sul tema in questione una ricca e più o meno valida messe bibliografica di case studies. Numerose analisi, infatti, hanno preso in considerazione il fenomeno con una impostazione di stampo più generale: il pensiero corre in primis al pioneristico lavoro di Antonio Gibelli del 1991 (L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale), in cui si sono intrecciate le testimonianze scritte dei soldati con fonti psichiatriche o all’altrettanto noto studio del 2001 di Bruna Bianchi, La follia e la fuga, capace di far emergere, attraverso una quantità e varietà di fonti, i fenomeni di psicopatologia ‘esplosi’ in seno al primo conflitto mondiale. Allo stesso tempo però sono stati compiuti negli ultimi decenni considerevoli ricognizioni archivistiche particolari attraverso la puntuale disamina delle cartelle cliniche di soldati ricoverati negli ospedali psichiatrici dell’Italia centro-settentrionale, sia a ridosso delle zone di combattimento (per quanto riguarda la nostra regione, i ben analizzati casi di Verona o Treviso), sia nelle aree più discoste come – solo per citare qualche significativo esempio – nei contributi di Maria Grazia Salonna, Ilaria La Fata, Mario Vanini o Lisa Roscioni e Luca Des Dorides, dedicati rispettivamente ai frenocomi di Ancona, Colorno, Como e Roma.
L’Archivio dell’Ospedale psichiatrico padovano, un tempo ubicato lungo l’attuale via dei Colli, oggi custodito nei locali dell’Archivio di Stato del capoluogo euganeo, sotto questo punto di vista ha enormi potenzialità e può essere strumento per inserire pure questo poderoso insieme di carte all’interno di un filone di ricerche molto importante e vivace a livello non esclusivamente nazionale. Proprio per valorizzare al meglio questo pregevole ‘archivio della follia’ diversi docenti dell’Ateneo patavino afferenti al Centro per la Storia dell’Università, al Centro interdipartimentale di ricerca “Storia della Medicina”, al Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità, al Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali, nonché al Comitato d’Ateneo per il centenario della Grande Guerra, hanno avviato un interessante progetto di ricerca che, secondo un programma condiviso e concordato, dovrà dare vita ad articolati studi analitici.
Il manicomio padovano fu inaugurato nel 1907 allo scopo di curare le malattie mentali in un luogo a esse esclusivamente riservato e fu fortemente voluto dal professor Ernesto Belmondo, illustre cattedratico a Padova, già membro di una commissione di indagine condotta in conseguenza di uno scandalo scoppiato a causa dei maltrattamenti inflitti agli alienati accolti a San Servolo di Venezia, allora uno dei principali ospedali psichiatrici, primo fra i manicomi del Veneto. Il docente, bisogna sottolinearlo, era uno dei sostenitori della psichiatria no–restraint, ovvero di una tecnica manicomiale assistenziale che non si basava in via esclusiva su strumenti di contenzione fisica.
Questa ricerca archivistica […]