“Serve una modellazione numerica sesso-specifica e non basata sui soli dati clinici maschili”: Giulia Comunale, ricercatrice in ingegneria biomedica, vincitrice del Premio intitolato alla prima donna laureata
Ancora complimenti, Giulia, per aver vinto il Premio previsto dalla III edizione del bando “Elena Lucrezia Cornaro Piscopia Università di Padova”! Presto arriveremo alla tua tesi di dottorato, ma raccontarci il pezzo di strada che viene prima, dalla scelta degli studi da compiere agli anni di Università?
La scelta di Padova, lo ammetto, è stata dettata da motivi molto pratici: Padova era un’Università molto vicina, e avrei potuto frequentare da studente pendolare. Ciò non significa che sia stata una scelta inconsapevole: ho comunque partecipato agli open day, e sono rimasta molto colpita da questo mondo nuovo, dinamico, avvincente. La scelta del percorso, invece, non è stata così lineare…
Fin da piccola, ho sempre avuto una grande passione per la matematica, che ho coltivato in tutte le scuole frequentate; al liceo, però, ho avuto una professoressa che mi ha fatto innamorare della biologia e del corpo umano. Dovendo scegliere un percorso di laurea unico, mi sono trovata in difficoltà a capire quale di queste due vocazioni seguire… fortunatamente ho scoperto l’esistenza di un percorso ibrido, l’ingegneria biomedica, un ambito di studi che mi avrebbe permesso di coniugare perfettamente la matematica e la biologia, e di farlo con particolare attenzione ai risvolti applicativi della scienza, fattore per me molto importante.
In triennale, in realtà, ho scelto ingegneria dell’informazione, più che altro perché all’epoca era molto consigliato come un solido percorso propedeutico per una magistrale d’indirizzo biomedico. Sono poi partita per la Svezia per un anno intero, il primo della magistrale, e là ho scoperto le neuroscienze.
A Stoccolma ho potuto approfondire la bioingegneria del sistema nervoso, approfondendo uno dei due organi più affascinanti del corpo umano, il cervello! Ma la curiosità mi spingeva anche verso l’altro organo per me più affascinante, il cuore… Così, tornata in Italia, ho scelto come relatrice per la tesi la professoressa Francesca Maria Susin, che applica la sua expertise in meccanica dei fluidi al campo biomedico, e che ha fondato il laboratorio di fluidodinamica cardiovascolare dell’Università di Padova.
Il questo gruppo di lavoro ho trovato la collaborazione fra diverse professionalità e competenze, e una comunicazione fra colleghi aperta al confronto e alle idee e rispettosa, ingredienti essenziali per stimolare la creatività e la produzione di quesiti e soluzioni innovative.
Da lì, travolta dalla passione che la professoressa sa trasmettere così bene, ho proseguito in quel settore oltre la tesi, con una borsa di ricerca e poi con il dottorato che mi ha portato a vincere questo Premio.
La Commissione aggiudicatrice del Premio ha visto nel tuo lavoro un grande potenziale per ricadute “scientifiche, sociali ed etiche” e nel rinnovare i saperi alla luce del genere. Ci spieghi di cosa ti occupi e su cosa hai lavorato per la tua tesi di dottorato, dal titolo ‘Lumped-Parameter Models for Congenital Diseased and Sex-Specific Cardiovascular Circulations’?
Gran parte del lavoro che facciamo come gruppo di ricerca nasce da quesiti clinici. Lavoriamo a stretto contatto con chirurghi pediatrici, cardiochirurghi e cardiologi, che nella loro pratica quotidiana sviluppano interrogativi e intuizioni, che è nostra responsabilità tradurre in termini matematici per comprenderli più a fondo e trarne delle conclusioni per il futuro.
Il mio progetto di dottorato è partito così. Alcuni bambini, nella condizione chiamata circolazione di Fontan, nascono con solo un ventricolo cardiaco funzionante; i chirurghi solitamente operano per permettere a questi bambini di vivere, ma questi interventi, pur evitando morti premature, non consentono una vera e propria guarigione. Queste persone, crescendo normalmente, continuano infatti ad avere un sistema circolatorio anormale.
Mi sono chiesta cosa succedesse alle donne affette da questa sindrome una volta incinte: la gravidanza è una condizione alterata, e un sistema circolatorio compromesso potrebbe avere conseguenze cliniche importanti. Dovendo costruire un modello circolatorio per la donna in gravidanza, mi serviva però un modello di partenza della condizione “fisiologica”, ovvero la normale circolazione femminile, e qui ho riscontrato un problema.
L’ingegneria, contrariamente a quanto di pensi, non è una scienza neutra, specialmente nell’ambito biomedico, dove ci si confronta con corpi che non sono tutti uguali. A livello più generale, tanti oggetti di uso comune nel venir progettati non tengono conto delle differenze antropometriche fra uomo e donna: banalmente, alcune aspirapolvere sono troppo pesanti per essere maneggiate a lungo da una donna, o le auto, anche modelli avanguardistici di grandi aziende tech, non garantiscono la perfetta ergonomia per corpi più minuti della media. Per me fu illuminante in questo senso una conferenza di Londa Schiebinger cui ho assistito, ricercatrice di Stanford che ha avviato il progetto “Gendered Innovations” e ha mostrato che la considerazione del genere aggiunge qualità ai risultati scientifici e a volte porta anche a risparmi economici.
Allo stesso modo, nella mia ricerca, ho scoperto che i dati di cui avevo bisogno per impostare i parametri del mio modello non erano dipendenti dal genere del paziente. I dati su alcune variabili molto difficili da misurare (vedi, per esempio, la pressione sanguigna epatica), sono stati raccolti in banche dati che non distinguono la popolazione di riferimento per genere e, tendenzialmente, per come è stata fatta la ricerca medica finora, sono orientati al corpo maschile, che sovra-rappresentano. La medicina di genere, infatti, è molto recente, e così anche la consapevolezza dell’importanza del genere nel raccogliere e catalogare i dati biologici.
Nel mio caso, ho creato sia un modello con parametri “generali”, né maschili né femminili, ma di fatto più rappresentativi della popolazione maschile, sia un modello donna-specifico, usando parametri femminili. Ho così scoperto, per esempio, che il modello cosiddetto “generico” sovrastimava il flusso ematico verso l’utero del 40%, a dimostrazione dell’effettiva parzialità di questa metodologia, non attenta alle differenze di genere.
Credo che tutta l’ingegneria, biomedica e non, dovrebbe cessare di usare l’uomo maschio come “individuo default”, perché così non è. Sono contenta che mi sia stato conferito questo Premio, perché è uno dei tanti piccoli passi che indicano una maggior consapevolezza sull’importanza del genere nella scienza.