L’abrogatio del tribuno della plebe Marco Ottavio, chiesta e ottenuta da Tiberio Gracco per superare il veto ripetutamente opposto dal primo alla Lex agraria del 133 a.C., è passata alla storia come un atto incostituzionale ed eversivo.
Incostituzionale perché Tiberio, invece che piegarsi al dissenso di Ottavio, come i princìpi dell’intercessio gli avrebbero imposto, decise con procedura del tutto inusuale, almeno con riferimento alla carica tribunizia, di mettere ai voti la destituzione dell’avversario avanti ai concili della plebe. Una scelta persino oltraggiosa, perché attentava ad uno dei più solidi baluardi dell’ordine repubblicano, la sacra inviolabilità dei tribuni.
In un clima politico già arroventato dalla propaganda riformista di Tiberio, tanto vicina alla plebe rurale quanto invisa ai ricchi possidenti terrieri (la legge agraria limitava il possesso di ager publicus a 500 iugeri, prevedendo che le eccedenze venissero distribuite ai cittadini meno abbienti), l’abrogatio di Ottavio non poteva che risultare anche eversiva. Pur di portare a compimento il proprio progetto legislativo, Tiberio aveva infatti sfruttato il favore del popolo nel modo più estremo, affidandogli la destituzione del collega ostruzionista. Si erano così spalancate le porte a un conflitto sociale che, a detta di molti, condusse inesorabilmente al tracollo delle istituzioni e alla crisi della repubblica.
Questo è, in breve, il giudizio espresso sull’episodio dalla tradizione storiografica (confluita principalmente in Plutarco e Appiano), ma che non ha trovato sempre concordi gli studiosi moderni e che, anche per questo, ci pare meriti una rilettura.