Ambientalismo vero e di facciata | Greenwashing e certificazioni ambientali
Il seguente articolo è reso disponibile per gentile concessione di "Frate Indovino"; il pezzo è comparso nel volume di febbraio 2022 del periodico, a opera dell'Alumna Chiara Andreola, giornalista, a seguito del webinar organizzato dall'Associazione Alumni “Siamo tutti un po’ green? Certificazioni ambientali e greenwashing”.
Si parla spesso di come una delle principali chiavi alla sostenibilità ambientale sia l’economia circolare. Secondo la definizione della Fondazione Ellen McArthur, questa è “un’economia industriale che è riparatrice, riparativa o rigenerativa per intenzione e design”. Mantiene quindi lo scopo di produrre beni e servizi generando valore; ma vi unisce altri fini come la minimizzazione del proprio impatto ecologico, consumando meno e ricorrendo a fonti pulite e rinnovabili, utilizzando materiali riciclati o recuperati ed avviando poi nuovamente al riciclo o recupero i propri scarti. Di qui la differenza l’economia “lineare” - che invece preleva dall’ambiente materie prime ed energia, trasforma, e getta ciò che non serve più.
Posto il tutto avvenga con processi non inquinanti – cosa che è insita al concetto stesso di economia circolare -, l’impatto sull’ambiente è evidentemente minore; così come quello sociale – basti pensare ai problemi creati alla popolazione dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali.
La cosa è apprezzata anche dai consumatori: diverse ricerche dimostrano che, seppure con percentuali diverse a seconda del tipo di prodotto e di consumatore, c’è una propensione ad acquistare prodotti dichiarati come ecosostenibili. Di qui è nata però una pratica che invece è tutt’altro che virtuosa, quella del “greenwashing” (“lavaggio verde”): far credere cioè al consumatore, tramite informazioni incomplete (perché magari relative sono ad una parte del processo produttivo) o ingannevoli, che il proprio prodotto è sostenibile.
È interessante una ricerca condotta nel 2018 dalla Scuola Sant’Anna di Pisa, su un campione di 821 imprese italiane. Di ciascuna è stata misurata, tramite diversi indicatori, la circolarità; ricavandone 5 “profili”. Il primo è quello delle aziende “orientate all’informazione”, che basano il proprio “essere verdi” su azioni di marketing: un ambientalismo di facciata a cui non corrisponde un’effettiva organizzazione circolare della produzione, e dove più facilmente si verificano episodi di greenwashing. Il secondo è quello delle “aziende lineari”: non sono circolari, né interessa loro esserlo e comunicarlo. Il terzo è quello dei “green marketers”, che soddisfano i requisiti della circolarità per progettazione, produzione e consumo; il quarto quello degli “ottimizzatori”, che li soddisfano per produzione e logistica; e il quinto è quello delle “imprese circolari”, che soddisfano tutti gli aspetti. Il dato a cui porre l’attenzione è che nei primi due profili ricadono rispettivamente il 24% e il 41,6% delle aziende analizzate: il 65,6%, quindi, non adotta l’economia circolare. Nel terzo e nel quarto profilo troviamo il 15,6% e il 10,6% delle imprese, e nel quinto solo l’8,2%: le aziende circolari in tutto sono quindi una piccola minoranza. Il che potrebbe non sorprendere, contando che riorganizzare la propria produzione in senso circolare ha costi anche elevati; ma i ricercatori hanno anche notato come, sul lungo termine, i risultati migliori sotto il profilo economico vengano ottenuti proprio dalle aziende di questi ultimi tre gruppi.
Proprio per dare dignità anche legale agli impegni sul fronte economico e sociale delle imprese sono nate negli ultimi anni una miriade di certificazioni, riconoscibili ciascuna con il proprio logo: con le quali un ente terzo verifica la presenza e il mantenimento di una serie di requisiti. Tra le certificazioni più “onnicompresive” c’è quella B-Corp, rilasciata da un ente americano, che in Italia è legata alla forma giuridica di “società benefit”: un’azienda cioè che inserisce nel proprio statuto non solo l’obiettivo la realizzazione di profitti, ma anche una serie di finalità relative alla responsabilità sociale d’impresa – dalla circolarità, alle azioni in favore dei dipendenti e della comunità e alla trasparenza. In Italia sono poco più di 120 le B-Corp certificate, e circa 850 le società benefit: poche, ma c’è da considerare che questa forma societaria è prevista dalla legge italiana da neanche sette anni.
Come leggere i dati della ricerca della Sant’Anna? Ne parliamo con la prof. Francesca Gambarotto, docente di economia all’Università di Padova.
Prof. Gambarotto, come mai così poche aziende circolari?
Innanzitutto, rispetto ad altri Paesi come Austria e Germania scontiamo una legislazione meno favorevole: lì c’è una domanda di circolarità che trova una risposta politica. Poi scontiamo il fatto che il tessuto imprenditoriale italiano è fatto di piccole imprese: e dato che la transizione ecologica richiede grandi investimenti in fase di avvio, mentre i benefici economici arrivano in seguito, questo penalizza le aziende meno strutturate.
Che cosa può fare il consumatore per capire se un’azienda è davvero circolare?
Purtroppo è impossibile, da consumatori, avere tutte informazioni che ci servono. Dobbiamo affidarci alle certificazioni, e quindi essere informati su che cosa ciascuna significa. Certo sarebbe auspicabile maggiore chiarezza da parte delle imprese.
Lei parla della necessità di concetti e parole nuove per ripensare l’economia in senso circolare. Che cosa intende?
Mi riferisco all’importanza della narrazione. Pensiamo al termine “rifiuto”: ha un’accezione negativa, risalente ad un’epoca in cui i rifiuti rappresentavano una minaccia sanitaria e andavano eliminati. Oggi possiamo dare nuova vita ai rifiuti: per questo le parole devono assumere un nuovo significato.
Ma cosa c’è dietro a una certificazione? Ne parliamo con Marco Valerio Ceccotti, specialista di architettura verde per Nativa, società di consulenza che accompagna aziende in processi di transizione ecologica e certificazione e prima società certificata B Corp in Europa.
Che cosa possiamo dire sulle certificazioni?
Innanzitutto che vengono rilasciate da organismi indipendenti: non si basano sulle dichiarazioni delle aziende, inevitabilmente “di parte” anche se in buona fede, ma su effettive verifiche, che vengono periodicamente ripetute dopo il rilascio della certificazione. Negli ultimi anni il loro numero è esploso, e ottenerle è un percorso che dura anni: e quelle più “robuste”, come appunto B Corp, sono più adatte alle realtà già strutturate.
Quali sono le più diffuse pratiche di greenwashing?
La più diffusa è “giocare sulle parole”: affermare che la confezione è “al 100% riciclabile” non ci dice nulla su processi di economia circolare, come invece fa la dicitura “al 100% da materiale riciclato”. Anche dichiararsi “a emissioni zero” è ben poco radicale se significa solo piantare alberi chissà dove per compensare la CO2 emessa.
Quali consigli per il consumatore?
Innanzitutto fare attenzione ai marchi delle certificazioni sulle confezioni dei prodotti. Poi, in generale, leggere le etichette e la provenienza di ciò che acquistiamo: in Europa disponiamo di un sistema efficiente di tracciabilità, e sapere che si tratta di un prodotto locale è quantomeno garanzia di un minore impatto ambientale a livello di trasporto.
Un esempio di azienda che ha implementato buone pratiche di sostenibilità? La Loacker, produttrice del noto wafer. Ne parliamo con il responsabile dell’ufficio di competenza agricola, Felix Niedermayr.
Dott. Niedermayr, Loacker si rifornisce di latte in Alto Adige, di nocciole in Italia, di vaniglia in Madagascar, e di cacao in Africa e Sudamerica; il tutto tramite accordi pluriennali diretti con agricoltori locali. È un sistema più costoso?
Se si è strutturati no: basti fare l’esempio della vaniglia, il cui prezzo negli ultimi anni è stato oggetto di speculazione e salito fino a 600 $ al kg, quando agli agricoltori non ne venivano corrisposti più di 20. Tramite accordi diretti, riusciamo a riconoscere il giusto prezzo agli agricoltori per diversi anni e a non essere soggetti a queste speculazioni.
Nei Paesi extraeuropei unite agli accordi con gli agricoltori anche progetti di sviluppo per il sostegno della scolarizzazione e dell’autonomia delle donne: come funzionano?
Sono progetti finanziati da noi con un’azienda partner, con il contributo al 50% dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione Internazionale. Sono basati su un business plan di cui ogni anno dobbiamo rendicontare, e prevedono che i terreni rimangano di proprietà dei contadini. L’obiettivo è creare un circolo virtuoso tra sviluppo economico e sociale.
Quali sono i problemi che rimangono da risolvere?
Dal punto di vista agronomico, vanno migliorati alcuni aspetti della coltivazione sostenibile delle nocciole, in particolare per la concimazione e la lotta alle cimici. Dal punto di vista sociale e ambientale, vediamo problemi di lavoro minorile in Costa d’Avorio e di deforestazione in Sudamerica: con la nostra presenza lì cerchiamo di monitorarli.