Alfonso Galderisi: da Napoli agli Stati Uniti per prendersi cura dei più piccoli

28 Marzo 2024 Associazione Alumni_admin Categories Interviste Medicina, news

Alfonso Galderisi, alumnus di pediatria, ci ha raccontato la sua esperienza e la ricerca che sta portando avanti a Yale. Da giovane specializzando a ricercatore per una causa importante: il diabete pediatrico.

Ciao Alfonso, grazie per la disponibilità!
Presentati e raccontaci una curiosità su di te..

Mi chiamo Alfonso, sono un pediatra, napoletano di origine, ex specializzando ed ex dottorando padovano e al momento vivo negli Stati Uniti.

Io e mia moglie viviamo in Connecticut, lavoriamo entrambi a Yale e abbiamo una bimba di 20 mesi. Il Connecticut non è un luogo in cui si possa facilmente coltivare del basilico (un elemento essenziale in cucina almeno per me), così abbiamo messo in piedi un angolo speciale per la nostra piccola pianta di basilico e abbiamo insegnato alla nostra piccola a prendersene cura ogni giorno e settimanalmente decide quali sono le foglie da prendere per cucinare.

Qual è stato il tuo percorso formativo all’Università di Padova?

Sono arrivato a Padova nel 2012 per la specialità in Pediatria, dopo una laurea in medicina a Napoli. A quel tempo non c’era il concorso nazionale con “le città preferite”, si sceglieva una sola sede dove fare la prova e … fine.
Io avevo scelto Padova.

Grazie a Padova, infatti, sono approdato a Yale.
Ancora da specializzando avevo iniziato a collaborare con il dipartimento di bioingegneria su alcuni progetti legati ai sensori del glucosio. E grazie a un docente del DEI (il prof. Cobelli) con cui avevo avuto qualche scambio, mi misi in contatto con il gruppo di Yale.
Il responsabile, prof. Tamborlane, della diabetologia pediatrica di Yale è la persona che ha letteralmente inventato il concetto di microinfusore di insulina, ovvero di un dispositivo che – come un pancreas – infonde piccole quantità di insulina sottocute durante la giornata.
Il prof Tamborlane mi invitò a fare un piccolo seminario per il loro gruppo e dopo questo finimmo con il passare tre anni a lavorare insieme.

Ma il punto di contatto iniziale fu il prof Cobelli. Scrivemmo un piccolo progetto di ricerca per un anno, finanziato da una fondazione internazionale, e poi.. un anno si trasformò in tre anni.

Quali sono stati gli insegnamenti dell’ateneo patavino che ti hanno aiutato nella carriera internazionale?

Direi quali sono stati gli insegnamenti e le persone.

Sono soprattutto le collaborazioni scientifiche create qui che mi hanno aiutato a portare avanti i miei obiettivi di ricerca. In primis la collaborazione con il DEI mi ha guidato nella metodologia per studiare il metabolismo del glucosio nel diabete (tipo 1 e tipo 2) e poi la collaborazione con una collega al DPSS con la quale abbiamo immaginato un progetto per adattare i bisogni nutrizionali del neonato pretermine utilizzando sensori del glucosio e “ossigenazione cerebrale”. Un progetto innovativo che ha portato all’ateneo patavino un grant europeo di circa 3.5mln EUR.

C’è però un luogo (e quindi un gruppo ancor più grande di persone) che mi ha permesso di iniziare il tutto: la pediatria padovana.
Quando in un meeting di lavoro o in una chiacchierata al bar qualcuno mi chiede cosa faccio, e rispondo “il pediatra”… beh in questa risposta c’è tutto l’affetto e il tempo condiviso con la pediatria padovana.
Ho un ricordo bellissimo della pediatria, e ho trovato, anche dal punto di vista scientifico, un grande supporto fin da quando ero specializzando.

Uno degli studi di maggiore impatto che ho condotto è nato in neonatologia a Padova, durante una chiacchierata con il prof Trevisanuto mentre io ero al mio primo mese di training in terapia intensiva neonatale. Ci chiedemmo se gli strumenti usati per il monitoraggio della glicemia nel bambino con diabete potessero avere “senso” e “uso” in neonatologia. Poi, con molto sforzo e supporto da tutta la neonatologia arrivammo a pubblicare su Pediatrics il primo trial che dimostrava la sicurezza e l’efficacia di questi strumenti nel neonato pretermine. Quel trial rimane uno dei più importanti in questo campo e lo avevamo pensato in piedi a fine turno in terapia intensiva nel microspazio della cucina dove a volte ci fermavamo per prendere un po’ di respiro nelle lunghe giornate del training.

Devo molto a Daniele e poi alla clinica pediatrica, alla direzione (al prof Baraldi), che sono stati sempre dei forti sostenitori di questa linea di ricerca. Posso dire – con molto orgoglio – che questo sostegno è stato poi premiato, la ricerca in questo campo ha portato all’ateneo (ed alla clinica) molte risorse e progetti di rilievo internazionale. Ho ormai lasciato la clinica da circa 3 anni, ma alcuni fondi di ricerca ottenuti, i progetti che ho creato sono rimasti in piedi e questo credo sia l’obiettivo di ogni passaggio accademico: lasciare qualcosa di utile alla nostra “casa ospitante”.

E in ultimo – e di questo l’ateneo patavino dovrebbe essere orgoglioso – gran parte di questa storia non sarebbe esistita senza l’ufficio ricerca internazionale. Molti di noi forse non sanno neanche dell’esistenza di questo luogo fantastico, ma non ho trovato nulla di simile all’estero.
Qui, in USA, gli uffici per la ricerca sono business office, bravissimi in questo, ma il concetto di un ufficio ricerca che conosce le call , i contenuti e ti prende per mano e “vince” un progetto con te è unico dell’ateneo di Padova.
Se potessi porterei a Yale l’ufficio ricerca internazionale di Padova!

Da dove nasce la tua passione per la pediatria?

Da un’idea un po’ banale: a me piace ancora molto, anche nel quotidiano, provare ad aggiustare le cose, i giocattoli, gli oggetti quotidiani.
Ti aiuta a capire come sono fatti quando sei piccolo e poi ti da un po’ di gioia quando riesci a farli funzionare di nuovo e nessuno – salvo te – sa che si erano rotti prima.

Per certi versi la medicina significa un po’ aggiustare capendo come funziona “l’organismo”. Della pediatria amo il fatto che si possano “aggiustare le cose” prima che si rompano.
E’ un’idea molto banale, lo ammetto, e molte volte non vera, ma io ci credo. Prendi la diabetologia pediatrica, l’area in cui ho speso molto del mio tempo di ricerca. Oggi facciamo un buon lavoro perché preveniamo le complicanze di una malattia che fino all’inizio degli anni novanta era ancora drammatica per i bambini con una incidenza di complicanze elevatissima.
Oggi questo non è più vero, oggi possiamo dire che le cose vanno decisamente meglio che tanto è cambiato. Ma lì viene il punto: mentre proviamo ad aggiustare le cose capiamo anche cos’è la malattia, quali sono i suoi meccanismi e questo ci ha aiutato a intervenire prima ancora della diagnosi con le terapie mirate sul sistema immunitario. C’è ancora molto da fare ma – come pediatri – abbiamo la fortuna di essere in una finestra di intervento unica nella vita delle persone e possiamo impattare enormemente i loro 70-80-90 anni e renderli migliori. Questo è quello che spero almeno per questa malattia per i prossimi 30 anni di attività.

Quindi, le osservazioni condotte durante la tua ricerca, cos’hanno rilevato?

Come le ho anticipato prima, mi sono occupato di due aree, il controllo glicemico nel neonato pretermine e il diabete in età pediatrica. Nella prima area, grazie al lavoro padovano abbiamo scoperto che la glicemia neonatale impatta l’ossigenazione del cervello, ora speriamo di capire quanto questo influenzi lo sviluppo del neonato e come possiamo intervenire.

Nel secondo “box di ricerca” la storia è un po’ più articolata: oggi sto studiando dei farmaci che selettivamente bloccano l’autoimmunità e ritardano l’esordio del diabete autoimmune (di tipo 1) nei bambini.
Il problema è che facciamo ancora fatica a capire in chi questi farmaci funzionano, quando smettono di funzionare e quando idealmente dovremmo iniziarli.
Ecco, a oggi abbiamo dimostrato che si può identificare chi è a rischio di sviluppare la malattia “prima”. Su questa base tutto il programma di screening per il diabete tipo 1 negli Stati Uniti è stato modificato a fine 2023, per permetterci di calcolare le alterazioni precoci (e sottili) della secrezione dell’insulina che occorrono in chi svilupperà la malattia quando non ci sono ancora i segni di malattia.
Utilizzando le stesse “metriche” stiamo anche mettendo a punto un sistema per identificare la risposta precoce ai nuovi trattamenti. Oggi i trial che usano i nuovi “immunomodulatori” aspettano l’esordio di malattia per dire che un farmaco funziona o no. Come puoi immaginare questo non è pensabile. Troppo tempo e troppo doloroso.

Utilizzando esplorazioni funzionali della secrezione insulinica più sofisticate puntiamo a capire se in 3-6 mesi il farmaco investigato funziona o no e quindi proporre un’alternativa nei cosiddetti “adaptive trials”.
Spero tra un anno di darti qualche buona notizia su questo fronte!

Cosa ti auguri per il futuro e quali sono i tuoi progetti?

Intanto concludere lo studio di cui parlavo prima; e poi chiaramente convincere un’agenzia regolatoria come la FDA americana o l’EMA europea che tutto questo è reale, sicuro ed efficace.

Nel prossimo decennio spero di concretizzare la possibilità, con l’aiuto del consorzio con cui lavoro in USA e di alcuni colleghi europei, di dire a un bambino, e alla sua famiglia, che ha dei marcatori di rischio per il diabete tipo 1, ma che abbiamo una soluzione (o due o tre) funzionante che bloccherà la progressione di malattia; quindi che il bambino subirà un trattamento ma non dovrà mai imparare a gestire una malattia perchè questa non si presenterà.

Nei tuoi progetti vedi la possibilità di un rientro in Italia?

Ti sembrerà provocatorio, ma in realtà non sono mai andato via “realmente”.
Ho ancora molte collaborazioni, contatti quasi quotidiani con alcune persone con cui lavoriamo su progetti comuni. Purtroppo non posso fare la spesa al mercato in Piazza delle Erbe ogni settimana o andare in bici sull’argine, ma la città e le persone restano un luogo cui sono enormemente affezionato, sono un po’ casa per me.

Un ultimo consiglio per tutti i futuri alumni medici che vorrebbero intraprendere una carriera internazionale.

Non intraprendete una “carriera” internazionale, ma una “ricerca” internazionale.
Poi se questo vi porterà a restare a Padova o Londra o New York non importa. Cercate di capire quali sono le vostre domande scientifiche, cosa volete capire nella vostra vita professionale e chi sono quelle/i brave/i in giro per il mondo (o nel vostro ateneo) che possono insegnarvi le cose necessarie e poi iniziate.

Passerete un po’ di tempo nei ripostigli a stoccare il materiale per i vostri studi perché non ci sono spazi, molte serate a capire come funziona il vostro paese (qualunque sia) e la sua burocrazia, vi sentirete un po’ persi di tanto in tanto ma… alla fine non ve ne pentirete.

Scopri altre Storie di Alumni

Condividi