“Il rapporto con i pazienti mi dà la motivazione per portare avanti la ricerca”. Intervista a Elena Campello, medico e ricercatrice, vincitrice del Premio “Giancarlo Zotti” ed. 2019
Giunge alla sua conclusione la prima edizione del Premio “Giancarlo Zotti”, assegnato alla dott.ssa Elena Campello, dirigente medico dell’Unità di Medicina Interna dell’Ospedale Sant’Antonio di Padova e ricercatrice dell’Università di Padova.
Il Premio è dedicato alla memoria del Professor Giancarlo Zotti, laureato all’Università di Padova in Medicina e Chirurgia, nonché in Filosofia, docente in Ateneo, presidente dell’Ordine dei Medici di Padova e attivo nella vita politica della città. Si intende così ricordare la figura di Giancarlo Zotti, premiando l’autore o autrice del miglior lavoro di ricerca nell’ambito delle malattie trombotiche ed emorragiche.
Nell’attesa di organizzare la cerimonia di premiazione, abbiamo il piacere di presentarvi Elena Campello e condividere l’intervista che abbiamo realizzato.
L’Università di Padova, in collaborazione con Associazione Alumni, Corvallis Holding S.p.A. e la famiglia Zotti, è lieta di conferirle il Premio “Giancarlo Zotti”. Quanto a suo avviso è importante il ruolo dell’Università nel supportare la ricerca in ambito medico?
Il ruolo dell’Università è fondamentale.
Quello medico è un ambito di ricerca ampio e affascinante, tuttavia il percorso formativo dei medici è mediamente più lungo di altri; pertanto, i giovani medici si ritrovano ad approcciare per la prima volta la ricerca, di solito al primo anno di dottorato, dopo i 30 anni circa, cioè una volta consolidata l’esperienza clinica con il diploma di specializzazione
L’età un po’ “matura” e i contratti spesso a scadenza (dottorato e post-dottorato) che precedono le posizioni più consolidate presentano la necessità di aiuti economici esterni, senza il quale non ci si potrebbe dedicare a tempo pieno al proprio progetto di ricerca, che solitamente non ha orari né giorni liberi.
Devo dire che le iniziative dell’Università di Padova sono numerosissime e coprono tutti gli ambiti medici e non, nonché tutte le fasce di età. La possibilità di concorrere a bandi come questo è uno stimolo ad avere sempre nuovo entusiasmo e, nel caso di vincita, rappresenta anche un importante riconoscimento, sia a livello nazionale che internazionale, nel proprio curriculum vitae.
Come ha detto Lei, gli ambiti medici sono molteplici… Quali motivi l’hanno spinta a intraprendere questo percorso di specializzazione nelle malattie trombotiche? Dove sta, secondo Lei, l’innovazione in questo campo?
Come sempre nella vita, sono le persone che incrociamo nel nostro percorso che guidano le nostre scelte. Da studentessa di medicina sono stata assegnata a fare il tirocinio obbligatorio in un reparto di medicina interna. Qui mi sono dapprima innamorata dell’idea di diventare medico internista, e poi di quello che sarebbe diventato il mio gruppo di ricerca. Per la mia tesi di laurea mi è stato affidato l’ambito dell’ipercoagulabilità associata a cancro, e da allora non me ne sono più separata.
In merito all’innovazione, l’ambito delle malattie trombotiche è uno di quelli che ha avuto i più grandi avanzamenti nel corso degli ultimi anni: si pensi che dal 2014 abbiamo 4 farmaci anticoagulanti orali in più per la terapia e la prevenzione della trombosi, quando fino a prima c’era solo la warfarina. Inoltre, le malattie trombotiche coinvolgono un po’ tutti gli ambiti della medicina, dalla cardiologia, alla pneumologia, oncologia, gastroenterologia, chirurgia e così via… ciò lo rende senz’altro uno dei più interessanti!
A mio avviso, attualmente l’ambito più affascinante riguarda appunto il legame tra le malattie trombotiche e l’oncologia. I pazienti con neoplasia vanno purtroppo incontro frequentemente a trombosi, e la causa o le cause – o meglio i meccanismi patogenetici – non sono ancora completamente chiariti. Inoltre, la terapia anticoagulante per la trombosi causa spesso complicanze emorragiche e non sappiamo ancora quanto interagisca con le nuove terapia oncologiche. Un progetto innovativo è quello che possa chiarire i meccanismi trombotici nei pazienti con neoplasia e che possa trovare delle terapie mirate che blocchino questi meccanismi senza influenzare troppo la coagulazione, evitando così complicanze emorragiche.
È cambiata la gestione del lavoro a causa dell’emergenza sanitaria in atto? Com’è la situazione attuale?
Per noi medici internisti la vita non è molto cambiata nel corso dell’emergenza, nel senso che la quarantena chiusi in casa non c’è stata: abbiamo continuato i turni di lavoro notturni/diurni e festivi con il ritmo consueto. Alcuni di noi si sono offerti volontari in reparti di degenti COVID: in questo caso, il lavoro è stato sicuramente più intenso e la pressione psicologica ancora maggiore. Attualmente la situazione è sotto controllo, rimane ancora però la massima attenzione e l’uso di tutti i presidi in tutti i nuovi pazienti ricoverati e soprattutto durante le visite dei pazienti ambulatoriali.
Il reparto/unità operativa dove lavora ha direttamente seguito delle ricerche legate al Covid-19?
Come dicevo prima, le malattie trombotiche e i problemi della coagulazione coinvolgono tutti gli ambiti clinici: non a caso, si è subito palesata un’associazione tra l’infezione da COVID-19 e il rischio di sviluppare complicanze trombotiche (soprattutto trombosi venosa profonda). Inoltre, l’uso di terapia anticoagulante con eparina è stata ed è parte integrante dei protocolli terapeutici contro il COVID-19.
Con il mio gruppo ci stiamo occupando di definire la reale incidenza, nella Regione Veneto, delle complicanze trombotiche ed emorragiche successe nei pazienti COVID; abbiamo pertanto avviato uno studio multicentrico che vede protagonisti tutti i Colleghi degli Ospedali del Veneto che hanno aderito, con grande entusiasmo, a questa iniziativa. Inoltre, stiamo lavorando insieme ai Colleghi Anestesisti, Infettivologi e Internisti, per cercare di approfondire i meccanismi dell’ipercoagulabilità legati all’infezione da COVID.
Cosa ama di più dell’attività di medico? Quanto del suo tempo impiega nella ricerca e quali studi lei e i suoi colleghi state attualmente affrontando?
Devo essere onesta e dire che la parte che più amo è la parte clinica a contatto con il paziente: il rapporto con loro, il legame che si crea nel corso della diagnosi e – quando possibile – della terapia è ciò che mi dà la motivazione alla ricerca. Personalmente, dedico tutti i giorni qualche ora alla ricerca da molti anni. Parallelamente all’ambito COVID, con il mio gruppo e altre Unità ci dedichiamo anche alle nuove cause di trombosi venosa profonda di tipo genetico (trombofilia familiare), al trattamento anticoagulante ottimale nei pazienti con trombofilia familiare, e come accennavo sopra, all’ipercoagulabilità associata a neoplasia, in particolare del pancreas.
Un consiglio ai giovani che vorrebbero intraprendere un percorso simile al suo: quali step secondo lei dovrebbero fare? Consiglia dei periodi di studio all’estero? Se potesse tornare indietro, cosa cambierebbe lei in primis?
Il primo consiglio è di non spaventarsi se il percorso è lungo, e di crederci. Purtroppo la ricerca non dà soddisfazioni immediate, ma richiede tempo e dedizione: spesso i percorsi si incrociano, viene voglia di mollare, ma poi una nuova proposta, un risultato inatteso, una nuova collaborazione… Sono impagabili. Consiglio di intraprendere un dottorato di ricerca dell’Università di Padova e di trascorrere un anno o più del dottorato all’estero, perché lo scambio culturale è fondamentale. Io sono stata via solo 3 mesi durante il dottorato (a Chapel Hill nel North Carolina), ho stretto amicizie sincere e collaborazioni salde. Se tornassi indietro, starei via di più e farei anche esperienza in un altro centro di ricerca nord europeo, di modo da assorbire il modo di lavorare non solo americano, ma anche europeo.
Un valore che ho fatto mio durante la mia formazione a Padova? Il non mollare mai, perché con la dedizione e il rigore prima o poi le soddisfazioni arrivano.