«La sfida più grande è stata far accettare il mio stile di leadership, il mio approccio ai collaboratori e al business»: intervista a Paola Corna Pellegrini Presidente di AICEO – Associazione Italiana CEO ed ex CEO di Allianz Partners Italy e di Zambon Pharma

23 Agosto 2022 Associazione Alumni_admin Categories Interbiste Scienze, news

Paola Corna Pellegrini, Alumna, Presidente di AICEO – Associazione Italiana CEO ed ex CEO di Allianz Partners Italy e di Zambon Pharma, si è laureata in Matematica all’Università di Padova (1981) e ha conseguito un MBA presso la CUOA Business School, per poi divenire a soli 28 anni dirigente nel ruolo di Marketing Manager Personal Care di Henkel Cosmetics: da lì una brillante carriera la porta a ricoprire ruoli apicali nazionali e globali per diverse aziende farmaceutiche e assicurative.

La dottoressa Corna Pellegrini ha recentemente partecipato alla Settimana per il miglioramento della didattica dell’Università di Padova per parlare di transdisciplinarietà, in virtù della sua versatilità professionale, e ha voluto raccontare sé stessa e il proprio percorso ai microfoni di Alumni.


Emilie Wapnick, scrittrice e imprenditrice canadese, celebre advocate della multipotentiality, ha accusato la domanda “cosa vuoi fare da grande?” di essere mal posta e riduttiva, poiché le persone con diverse potenzialità e interessi accademici e professionali vorrebbero poter dare ben più di una singola risposta. Com’è stato per Lei il processo di consapevolezza sui propri desideri di studi e carriera? Come e con quali aspettative è approdata al corso di Matematica a Padova e poi al mondo del lavoro?

Oggi uno dei temi chiave è quello dell'orientamento dei giovani, hanno moltissime opportunità, ma ci sono professioni non ancora così note e conosciute e questo genera anche molta incertezza e difficoltà nel capire che strada intraprendere per la loro formazione.

Il mio percorso di studi è stato abbastanza eclettico: prima il liceo classico, poi Matematica all’università e, infine, un master in business administration.

Perché tanti cambiamenti di rotta? Perché volevo capire quale fosse la mia strada, senza lasciarmi condizionare dall’aver già cominciato un percorso diverso. Ho sempre accettato la sfida di rimettermi in gioco, per trovare quello che più mi appassionasse.

Dei punti di contatto comunque c’erano tra i vari percorsi. Anche al liceo classico infatti ho potuto mettere in gioco la mia mentalità scientifica: lo studio del latino e del greco richiedono metodo e capacità di analisi e in aggiunta il mio professore di latino e greco impostava lo studio della letteratura attraverso l’analisi semantica dei testi con approcci logici e rigorosi. Senza trascurare l’importanza di costruirsi una cultura umanistica che poi ti accompagna per tutta la vita. La scelta degli studi in matematica voleva rispondere al mio desiderio di un approccio concreto, vicino al mondo del lavoro, vicino all’economia reale. Proprio per questo ho optato per un indirizzo applicativo che prevedeva programmazione - che ai miei tempi si faceva ancora forando le schede! - ricerca operativa, statistica, calcolo delle probabilità, mi vedevo lanciata sull'information technology, all'avanguardia per i tempi e di grande futuro.

A Matematica ho appreso technicality che ho applicato in tutta la mia vita professionale e non, dalla capacità di analisi e sintesi, al metodo, al problem solving: mi viene istintivo prendere il problema, dividerlo in sotto problemi, affrontarli uno alla volta e ricomporre il quadro. Per me è un approccio normale, ma in 40 anni ho constatato che non per tutti è così.

Tuttavia, il mio percorso ha preso una direzione diversa per serendipity, quando un mio amico mi ha consigliato il master del CUOA: mi si è aperto, senza averlo cercato, un mondo. Il master mi ha condotto su nuove strade, e una di queste si chiama marketing. Da quel momento nasce la mia passione per il marketing e nello specifico il marketing di beni al consumo, parte del mio DNA professionale che mi ha accompagnato in tutte le esperienze aziendali che ho poi avuto in settori diversi e in ruoli via via crescenti fino alla posizione di Direttore Generale e Amministratore Delegato.

Quanto imparavo di volta in volta, lo trasmettevo a industrie e mercati diversi, generando un processo di contaminazione positiva con l’obiettivo di innovarli, dai beni di consumo ai servizi, dai beni tangibili a quelli intangibili. È importante avere la capacità, la voglia e l’umiltà di mettersi all’ascolto, di continuare ad apprendere, ma anche la curiosità e il coraggio di sfidare lo status quo.

Il successo delle aziende dipende dalla capacità di competere facendo innovazione, anche nei momenti difficili. Bisogna vedere lontano mettendo sempre al centro il cliente e i suoi bisogni, meglio se non ancora coperti, non accettare mai la frase “ma l’abbiamo già fatto”, “ma non ha funzionato”, è necessario chiedersi sempre come sfidare lo status quo, solo in questo modo si possono trovare idee nuove. Abbiamo innovato molto nel mercato farmaceutico attraverso cambiamenti di strategia e organizzazione, sfidando abitudini e convinzioni consolidate, attuando delle vere e proprie rivoluzioni, come il primo switch a OTC nel mercato italiano o l’umbrella branding strategy da OTC a prescrizione. E così anche nel mercato assicurativo dell’assistenza, lanciando la prima App per i viaggiatori assicurati e la prima copertura per il Cyber Risk.

 

La dott.ssa Paola Corna Pellegrini lo scorso 23 maggio 2022 all’evento di celebrazione dei 100 anni dell’UMI (Unione Matematica Italiana) e degli 800 anni dell’Università di Padova.
Grazie per averci raccontato il suo percorso, un attraversamento tra diverse discipline alla ricerca della creazione di un equilibrio e una commistione di saperi. Scoprire la ricchezza attraverso la scoperta della chiave della convergenza.
Quali sono le ricadute positive per il tessuto economico del Paese dell’avere professionisti formati in maniera transdisciplinare? Il mondo accademico dovrebbe slegarsi da un approccio eccessivamente specialistico alla formazione superiore? Quali modelli alternativi si possono adottare?

Quello che oggi serve alle aziende sono persone che sappiano disimparare: mettere costantemente in discussione se stessi e il proprio sapere, avere il coraggio di aprirsi a nuove sfide e a nuove competenze, in una logica del long life learning… Continuare ad imparare per tutta la vita.

L’obsolescenza dei saperi è diventata rapidissima: se le esperienze tecniche non vengono messe in gioco e le soft skills non vengono coltivate, non si riuscirà a mantenere il passo con il mondo economico e con la società.

In alcuni percorsi universitari andrebbe promossa la contaminazione dei saperi, per uscire dalla rigidità degli schemi. L’università dovrebbe - e l’Università di Padova si sta muovendo in questo senso - istituire dei percorsi transdisciplinari che pongano competenze e conoscenze in sinergia e offrano agli studenti una cassetta degli attrezzi per affrontare le sfide future.

Oggi sono indispensabili le competenze cosiddette STEM (Science, technology, engineering, mathematics), ma è importante coniugarle anche con una prospettiva human-centric che richiede necessariamente persone con una sensibilità fine per gli aspetti culturali, filosofici, psicologici, antropologici e sociologici. Se si cominciasse già da prima a formare i giovani con una varietà di competenze, si darebbero da una parte chance maggiori di trovare lavoro e si soddisferebbe meglio la domanda delle aziende. Oggi invece accade che le aziende debbano formare chi non ha le competenze digitali/tecnologiche attraverso upskilling, reskilling; mentre a chi le ha si cerca di insegnare capacità di interpretare i customers needs. Questo certamente va bene, ma l’ideale sarebbe anticipare questo percorso di contaminazione positiva.

La dott.ssa Pellegrini al convegno del 7 aprile 2022 dal titolo "Transdisciplinarietà: il nuovo paradigma per la didattica universitaria" mentre firmava il nostro Libro d'Onore.
Ritornando alle discipline STEM, nel 2017 in Italia solo il 25% dei laureati afferiva a discipline STEM, dato appena superiore alla media OCSE e ben distante da quello di Paesi fortemente competitivi come la Germania, con il suo 37%; se guardiamo poi al divario di genere, la situazione è ancor più critica: solo il 13% delle studentesse italiane sceglie un corso di studi STEM, nonostante il 40% di loro affermi di essere stata appassionata di matematica durante le superiori. Quali perdite comporta un simile divario, e come si può porvi rimedio?

In una recente presentazione dei risultati dell’ Osservatorio STE(A)M (la A sta per Arts) condotto da Deloitte, ho avuto l’occasione di rappresentare il mondo aziendale e il mondo manageriale femminile.

Sono emersi proprio questi dati, purtroppo. Come Paese, siamo molto indietro su tutta la popolazione aziendale e sono centinaia di migliaia i posti vacanti nelle aziende più orientate al mondo del digitale o tecnologico, perché non si trovano abbastanza giovani che escano né da istituti tecnologici superiori né da percorsi universitari tecnico scientifici.

All’interno di questo problema c’è l’accentuazione sul target femminile, donne che non intraprendono discipline scientifiche, soprattutto studi di ingegneria e informatica, per retaggi culturali, per stereotipi di genere coltivati dalle stesse famiglie, o forse perché pensano loro stesse siano percorsi meno affascinanti o meno appaganti.

Questo è un problema per le donne ma anche per la società. Innanzitutto perché l’80% dei mestieri richiederà competenze digitali e tecnologiche e non si può dire “io farò un altro mestiere”: ce ne saranno pochissimi che non richiederanno tali competenze. Già l’occupazione femminile è molto inferiore a quella maschile: se le donne non si appropriano degli ambiti tecnologici, le loro chances diminuiranno ulteriormente con gli anni.

Altra questione importante è che il nostro mondo e la nostra vita sono governate dalle tecnologie, e la tecnologia viene sviluppata da società dominate dalla compagine maschile. Se le donne non partecipano a progettare le soluzioni tecnologiche, ci aspetta per il futuro un mondo disegnato con gli occhi degli uomini, basato solo sui loro bisogni e sulle loro caratteristiche: fisiche, psicologiche, caratteriali…

Oggi già ci sono dei bias cognitivi di genere in alcuni algoritmi, è fondamentale cambiare rotta: le donne, ma tutte le minoranze, devono partecipare a questi sviluppi attivamente per creare un mondo più inclusivo.

Ho lavorato per 11 anni in Allianz partners, dove ho creato gruppi di lavoro misti, imparando a tenere conto delle esigenze di tutti. Avevamo 10 persone non vedenti in centrale operativa e abbiamo sviluppato software per permettere loro di lavorare sinergicamente tutti insieme e allo stesso modo: questo tipo di approccio deve orientarci nelle modalità di lavoro con tutte le persone.

Penso che una leva fondamentale per l’inclusione femminile nelle STEM sia spiegare loro il purpose, lo scopo delle tecnologie, l’impatto che avranno sulla sostenibilità, cui le donne sono molto attente: lo studio delle materie scientifico-tecnologiche sono imprescindibili per migliorare la situazione del nostro pianeta, della nostra società, per creare un mondo migliore per i nostri figli, per i giovani.

A suo parere perché una ragazza che esce dalle superiori appassionata di materie scientifiche non decide di continuare quel percorso? Quali potrebbero essere secondo lei le cause?

È dovuto certamente a un insieme di più condizionamenti.

Un primo condizionamento lo mette la famiglia molto spesso. Le madri, soprattutto, hanno un ruolo importante.

Persiste ancora la tendenza a pensare che percorsi come ingegneria portino a lavori che sono meno vicini al mondo femminile e meno conciliabili con una vita familiare. Tutte queste convinzioni e stereotipi vanno superati. Purtroppo, le materie tecnico-scientifiche sono viste come qualcosa di arido, di meno appagante, di meno coinvolgente; cosa in realtà non vera! Studiare matematica è stato molto divertente e il problem solving è qualcosa di veramente entusiasmante: ci vuole moltissima creatività!

I test nelle scuole dimostrano che le donne, le ragazze, le bambine sono più inclini alle materie umanistiche. È dimostrato però che le bambine fin da piccole sono esposte meno dei maschi a stimoli delle capacità analitiche, logiche e di problem solving.

Ho come esempio una tesi che nel 2021 ha vinto il primo premio del concorso universitario “Premio Valeria Solesin”. Nella ricerca si sono messi a confronto 2 gruppi, in uno dei quali la ricercatrice ha fatto giocare bambini e bambine al Meccano, e nell’altro solamente i maschi. Se esposte da subito agli stessi giochi, contemporaneamente ai maschi, le bambine acquisiscono esattamente le stesse competenze dei maschi.

Le bambine andrebbero opportunamente stimolate già durante l’asilo, e altrettanto dei maschi, che bisognerebbe educare al senso di accudimento, ancora delegato all’80% alle donne. Ricordiamo che questo fattore incide sulle possibilità di carriera delle donne, che sacrificano il lavoro alla vita famigliare in mancanza di adeguato supporto da parte del partner.

Avere un bagaglio culturale è indubbiamente fondamentale e l’ideale sarebbe conciliare metodo scientifico e metodo classico. Grazie al suo percorso formativo e alla sua intraprendenza ha poi ricoperto diversi ruoli professionali, affrontando diverse sfide. Saprebbe raccontarci qual è stata la sua più grande sfida personale o professionale?

Solo negli ultimi 10 anni ho affrontato a livello di business il naufragio della Costa Concordia i cui 1000 passeggeri erano assicurati con noi, la crisi finanziaria del 2012-13 e la pandemia, solo per citare alcune delle sfide di business che ho dovuto affrontare. La chiave per superarle è stato il gioco di squadra, insieme alla capacità di rendere l’azienda più resiliente e in contemporanea rispondere ai nuovi bisogni emersi attraverso nuove soluzioni innovative.

A livello sia personale che professionale, sicuramente la sfida più grande è stata far accettare il mio  stile di leadership, il mio approccio ai collaboratori e al business. Questo è un problema che accomuna molte donne della mia generazione e che purtroppo talvolta persiste ancora.

Attualmente, Lei riveste anche il ruolo di Presidente dell’Associazione Italiana CEO (AICEO). A quali principi ispira le Sue modalità di direzione aziendale? Quali competenze sono necessarie per raggiungere questo tipo di ruolo?

Oggi il leader deve essere un coach, non aderire al vecchio stereotipo del leader Command&Control. Il leader affianca le persone, le ascolta, le aiuta a trovare le soluzioni.

La pandemia ci ha costretti al ricorso spesso integrale al telelavoro, e questa esigenza ha reso ancora più pressante la necessità di un cambio di paradigma della leadership.

I capi devono abituarsi a lavorare per obiettivi, ad avere fiducia nei loro collaboratori, a non controllare a vista se questi stanno lavorando. Devono affiancare, ispirare, dare feedback, senza sostituirsi né dare task operative da monitorare ora per ora.

Stili di leadership molto direttivi e assertivi impediscono alle persone di esprimersi, ed è tutto valore perso. Se non c’è un clima di apertura, di accettazione e di non-giudizio, che è quello che si definisce psychological safety, in particolar modo le donne non parlano, non si esprimono, perché in minoranza, perché la loro opinione molto spesso è diversa.

Forse finalmente si potrà arrivare a riconoscere in modo naturale che questo stile è il più efficace e che fa bene a tutti; le donne sono più vicine a questo stile di leadership rispetto a quello all’antica, e ciò rappresenta una grande occasione per mettersi in gioco e rompere il soffitto di cristallo.

Le aziende con maggior parità di genere risultano più produttive, più profittevoli, più creative, innovative e sostenibili; anche i mercati finanziari, i grandi investitori oggi premiano valori quali inclusione e sostenibilità sociale, ambientale ed economica.

Infatti mettere a fattor comune la capacità dell’uomo di essere molto focalizzato sull’obiettivo, di essere molto orientato al risultato in tempi rapidi e la tendenza della donna ad avere una visione più rivolta al medio-lungo periodo e a tenere in considerazione molteplici punti di vista e istanze, genera un effetto moltiplicatore incredibile.

In conclusione, quale messaggio vorrebbe lasciare ai nostri Alumni e Alumnae ancora studenti, o che si apprestano a concludere il ciclo di studi e ad entrare nel mondo del lavoro?

Abbiate il coraggio di seguire le vostre passioni: innanzitutto dovete capirle, e poi seguirle. Solo coniugando passioni e attività lavorativa riuscirete ad eccellere. Questo vuol dire anche avere dei sogni e realizzarli, o lottare per realizzarli. Vuol dire anche avere fiducia in sé stessi, nelle proprie capacità, non porsi limiti o crearsi delle barriere.

La sindrome dell’impostore, di cui vi invito ad andare vedere la definizione, va lasciata fuori dalla porta.

Vorrei anche ricordare ai giovani che nulla si ottiene per caso o senza fatica: investite sul sapere, le conoscenze e le competenze, e lavorate sodo.

Impegnarsi sì, ma anche divertirsi nella vita e nel lavoro. Non bisogna pensare che le gioie vengano solo dall’ambito privato, altrimenti tutta la vita si rimane frustrati visto che il lavoro occupa una parte importante del nostro tempo. La sfida è fare un lavoro che piace, un lavoro in un ambiente in cui ti senti accolto, in cui ti senti capito, in cui ti senti stimolato. Se non mi fossi divertita, non avrei certo lavorato 40 anni 12 ore al giorno! Tutt’ora, uscita dal mondo aziendale, continuo a lavorare: adesso sono una piccola imprenditrice.

L’ultima cosa che raccomando ai giovani è di scegliere un’azienda o un’organizzazione non guardando solo al compenso economico. Certo quest’ultimo è importante, ma tenete d’occhio anche come sono i manager, se rispettano i collaboratori, se si impegnano per l’inclusione, l’ambiente e le tematiche sociali, in modo autentico.

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