“Il primo giorno che sono arrivata a Wolisso ho subito assistito ad un parto e, pur non conoscendomi, si sono fidati così ciecamente. Il fatto che loro avessero fiducia in me, ti aiuta a vivere più serenamente quello che stai facendo.” – INTERVISTA A SILVIA BALDISSERA, VINCITRICE DEL PREMIO “IRMA BATTISTUZZI” (V ED.)

23 Novembre 2022 Associazione Alumni_admin Categories news, Senza categoria

Abbiamo intervistato Silvia Baldissera, vincitrice del premio “Irma Battistuzzi”.

Silvia è un’ostetrica laureata all’Università di Padova che, grazie al premio, ha potuto vivere un’esperienza in un ospedale gestito da Medici con l’Africa – CUAMM nel paese di Wolisso, in Etiopia.

Perchè hai deciso di fare questa esperienza?

Quali erano le tue aspettative e i tuoi timori prima di partire?

Le mie aspettative…sicuramente muoversi in un contesto come quello africano ha dei pro e dei contro.

Comunque ci si immerge in una realtà parecchio diversa da quella a cui siamo abituati noi e quindi le mie aspettative si basavano sul poter essere all’altezza, di non essere d’intralcio ma anzi di portare qualcosa e soprattutto di poter imparare e inserirmi nel contesto, per sperimentare la loro cultura e la loro visione del mondo.

I timori invece erano tanti… quando si dice “vado in Africa”, le persone si pietrificano.

Si congratulano e ti dicono che è bello, ma subito dopo aggiungono che devo stare attenta. Quindi a parte questo, si aggiunge il timore di inserirti in un contesto nuovo e di essere tu l’ospite. E quindi il fatto di non essere pienamente accettato o avere un inserimento difficile… che non c’è assolutamente stato.

Anzi, è stato più semplice del previsto e tutte le mie aspettative sono state non solo attese, ma addirittura migliorate.

Ho ricevuto proprio tanto da questa esperienza, sia dal punto di vista professionale, questo perché nell’ospedale di Wolisso c’era un transito di donne veramente pauroso…non paragonabile in alcun modo alla nostra realtà, sia dal punto di vista umano perché non si può tralasciare questo tipo di esperienza dove si è immersi al 100%.

Le barriere linguistiche e culturali sono state un ostacolo?

Per quanto riguarda la cultura, ovviamente ci sono delle differenze… su certi aspetti sarebbe bello ritrovare alcuni aspetti anche qui, come ad esempio la loro spiritualità, la loro convivialità, la loro voglia di aiutarsi tra loro, cosa che secondo me nella nostra società stanno venendo meno…poi ci sono alcuni aspetti che, abituata alla mentalità occidentale, mi hanno lasciata un po’ perplessa…ad esempio la prima settimana lì, soprattutto all’interno della sala parto, ho avuto un primo momento di shock proprio per la differenza di gestione del parto.

Stare lì ovviamente ti aiuta a capire il perché di certe azioni o di certe scelte. Banalmente loro danno peso a certe cose che per noi sono scontate.

Quali sono le parole che hai imparato e ti sono servite?

Ci sono state usanze del posto che ti hanno colpito per la loro diversità rispetto al contesto italiano?

Il loro modo di approcciarsi alla vita è completamente diverso. Ho dovuto anche riabituarmi alla mia vita qui, una volta tornata.

È vero che a volte possono invidiare i nostri oggetti, però non credo che invidino la nostra vita, la nostra frenesia, la nostra burocrazia…è molto più marcato il rispetto umano, la riconoscenza, la fiducia, ben sapendo che ogni persona ha dei limiti e quindi non ti chiedevano mai l’impossibile e non si lamentavano del tuo operato sapendo che avevi fatto il possibile per aiutarli.

Nel nostro contesto invece siamo abituati ad avere i nostri diritti, ma spesso ci dimentichiamo che dell’altra parte c’è una persona che sta lavorando e che comunque sta facendo del suo meglio. Questa è stata la cosa che ho fatto più fatica a digerire una volta tornata qui.

Avevi dei pregiudizi prima di arrivare in Etiopia?

Il pregiudizio credo faccia parte della natura umana. Quindi spostarsi in un contesto del genere ti porta a pensare che sì, vai lì per fare del tuo meglio pur sapendo che il livello di istruzione è più alto, e quindi anche nei momenti in cui mi chiedevo se sarei stata all’altezza, mi facevo forza proprio sul fatto che nel contesto in cui sarei stata ospite avrei potuto portare ciò che avevo studiato, poi pensavo che sarebbero stati meno bravi nel metodo di gestione e questo era proprio pregiudizio, perché è stato abbattuto subito appena arrivata là.

Le ostetriche lì sanno gestire veramente ogni tipo di situazione, senza alcun tipo di esitazione.

Poi c’è il classico pregiudizio che l’Africa è un paese povero…vero perché non ci sono tutti i comfort a cui siamo abituati, ma cosa vuol dire veramente “povero”?  Quello che serve non è così tanto. Può sembrare che non avere tutti i comfort del caso sia un indice di povertà, però di certo non mi mancava la macchina così come tante altre cose che di fatto non mi servivano.

Ho imparato a vivere senza molti meno pensieri.

In che modo pensi di essere cambiata rispetto a quando sei partita? Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

Qual era la tua giornata tipo? Quanto tempo lavoravi e come trascorrevi il tempo libero?

Lì era organizzato per turni, quindi ad esempio la prima settimana facevo full-time con pausa pranzo, poi con il caposala abbiamo deciso che avrei preso un turno e avrei seguito il suo andamento, questo perché ognuno ha il suo modo di fare e riuscire ad integrarsi bene con tutti in un periodo così breve è complesso.

Quindi dipendeva dal turno, poteva essere mattino, pomeriggio o notte. A me piacciono molto le notti…sono magari più complesse da gestire, ma l’ambiente notturno ti dà qualcosa in più perché comunque l’atmosfera è più intima e raccolta e soprattutto di notte capita di tutto.  Ad esempio una notte ci sono stati 12 parti, io ne ho seguiti 7 e al mattino ero ancora elettrizzata!

Di fatto in una giornata lavorativa “normale” venivano le donne che pensavano di aver rotto il sacco o che cominciavano a sentire le prime contrazioni, quindi si facevano i controlli, ma non sempre l’ecografo era in sede, quindi si sentiva il battito con lo stetoscopio di Pinard. Poi si contava la distanza tra le contrazioni mettendo una mano sulla pancia. C’erano dei criteri molto rigidi, se rientravi in certi criteri poteva rimanere in ospedale, altrimenti doveva tornare più tardi.

In sala travaglio c’erano più donne insieme e non c’era un ostetrico che seguiva solo una donna, ma venivano gestite in contemporanea.

Durante i turni c’erano anche momenti di convivialità, una pausa caffè che durava anche 45 minuti. Questo perché si partiva dal chicco verde di caffè, si tostava, si macinava e lo si lasciava in infusione.

Poi c’erano i pranzi e le cene dove c’era questo tipico piatto etiope da condividere tutti insieme con le mani, utilizzando solo la mano destra. La cosa che mi ha sconvolta una volta arrivata là è stato il fatto che ti imbocchino.

Loro cercano molto il contatto, quindi ti abbracciano o ti accarezzano, ed è stato strano all’inizio perché questo capitava anche con i miei superiori.  Un conto è tra persone di famiglia e amici…un conto con i propri superiori al lavoro.

Questi due aspetti all’interno della routine di ostetricia si cercavano di mantenere sempre, anche se c’era un flusso continuo di pazienti. Era necessario condividere questi momenti di convivialità tutti insieme.

Poi vivevo in una guest house insieme ad altre ostetriche e medici e lì si era creato un gran bel clima di confronto. Eravamo tutti giovani e con le stesse motivazioni. Quando si poteva, si usciva e si andava in giro per la città di Wolisso che è enorme. Noi del CUAMM eravamo gli unici bianchi e per loro era stranissimo, addirittura ci fermavano e ci chiedevano di fare le foto.

Comunque passavo la maggior parte del mio tempo in delivery, e anzi quando mi capitava coprivo altri turni oppure quando potevo andavo in pediatria a vedere come funzionava il reparto.

Ci puoi raccontare un parto che ti ha colpito in particolare?

Noi qui partoriamo solamente presentazioni cefaliche, che sono la maggior parte. Le indicazioni per il cesareo erano per i parti podalici o gemellari…però dove si può evitare si evita perché è invasivo.

Mi ricordo che nella notte dei 12 parti, ero da sola in sala parto perché la stavo sistemando, ed entra una signora visibilmente in travaglio avanzato con tutti i suoi parenti, era accucciata dal male. Quindi l’ho fatta sedere e quando vado a sentire come sta il bambino, trovo un piede che era praticamente già fuori. Ho dovuto chiamare i colleghi che stavano dormendo e abbiamo portato a termine un parto podalico che non è semplicissimo.

Un’altra volta ho assistito ad un parto trigemellare dove non si sapeva effettivamente che erano tre gemelli, perché spesso le pluripare non hanno un gran controllo in gravidanza.  Quindi usciva il primo, che era piccolino, e comunque si continuava a vedere ancora tanta pancia e ci si chiedeva “ce ne sarà mica un altro?”.

Poi ci sono anche parti meno belli, ma fa anche questo parte dell’insieme delle cose…però in genere si vedono cose che qui a fatica di possono vedere.

Anche il loro approccio ai podalici, facevano le manovre perfettamente. Oppure anche i parti con ventosa, qui in Italia lo fa il ginecologo. Invece lì lo faceva l’ostetrica… lo hanno fatto fare anche a me ed è stata una conquista perché non ero molto propensa, anche perché le ventose che hanno loro sono un po’ così. Ma ci tenevano tanto a trasmettere questa loro pratica.

Oppure ancora la sutura…in Italia tendiamo a suturare il meno possibile, forse più di notte, ma se c’è il medico lo fa lui. Lì invece se ne devono occupare le ostetriche, si guardava e si replicava. E alla terza sutura dovevi sbrigartela da sola, a volte anche senza luce quindi dovevi chiedere a qualcuno che ti facesse luce.

Anche il primo giorno che sono arrivata ho subito assistito a un parto e, pur non conoscendomi, si sono fidati così ciecamente. Il fatto che loro avessero fiducia in me, ti aiuta a vivere più serenamente quello che stai facendo.

Il fatto di essere giudicato o di sentire una pressione, ti spinge all’errore. Quindi di fatto questa fiducia ti fa vivere più tranquilla.

Quali degli insegnamenti appresi all’Università di Padova ti sono tornati più utili sul campo?

L’Università degli Studi di Padova dal punto di vista teorico ti prepara bene, come gestire un’emergenza o un travaglio ad esempio, quindi mi sono sentita preparata.

Però è proprio la pratica e la gestione dell’emozione nelle situazioni difficili che può essere vantaggio o svantaggio; si può conoscere perfettamente la teoria, ma se non si sa poi affrontare il momento di pressione e si va in panico, può essere un problema.

Quindi sicuramente è importante il bagaglio teorico, però anche all’Università, per quanta pratica si faccia non è mai abbastanza. È difficile anche per il tutor didattico che ti segue in sala parto darti questa tranquillità, perché comunque si è all’interno di un contesto dove ci sono importanti responsabilità che pesano.

Quindi è difficile anche dare piena fiducia a qualcuno che non è ancora neanche laureato.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Avevo partecipato ad un concorso nella mia ULSS di riferimento prima di partire per Wolisso, che ho vinto e mi hanno chiamata proprio mentre ero in Etiopia. Quindi ho temporeggiato.  Ora sto lavorando e ho un contratto a tempo indeterminato, ma io ho una fortissima voglia di tornare lì o comunque di continuare a fare dell’esperienza in Africa. Mi affascina e dopo l’esperienza sono ancora più affascinata.

Se ero partita con l’idea di curiosità e per togliermi lo sfizio, ora ho proprio voglia di tornarci.

A me comunque piace tutto quello che è differente dal nostro contesto, mi piacciono le lingue, mi piace scoprire…e ho tanto desiderio di sperimentare, conoscere nuova gente e imparare.

Grazie Silvia e in bocca al lupo per il tuo futuro!

Premio Battistuzzi

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