«La ricerca storica ci fa comprendere la permanenza di atteggiamenti e pensieri nel mondo che viviamo». Intervista ad Antonio Spinelli, vincitore del Premio “Angelo Ferro” (III ed.)
Antonio Spinelli, classe 1975, è il vincitore della terza edizione del Premio Angelo Ferro per la cultura padovana, con la tesi dal titolo “Vite sospese. Gli ebrei stranieri in provincia di Padova (1933-1945)”. Attualmente dedito alla ricerca e all’insegnamento, Antonio è laureato in Filosofia e specializzato in Scienze Storiche all’Università di Padova.
Da molti anni si dedica al tema della Shoah, dell’internamento e della deportazione dall’Italia, focalizzando il suo sguardo sulle vicende di singoli e famiglie avvenute in territorio veneto. Cosa l’ha fatta avvicinare al tema che caratterizza la sua ricerca, confluita anche nell’elaborato di tesi che le è valso il premio “Angelo Ferro per la cultura padovana”?
“Credo che nelle scelte che compiamo e nell’intraprendere percorsi di studio e di vita ci siano sempre elementi sottesi, più o meno inconsci. Se ci voltiamo indietro, spesso notiamo un sottile filo che lega non solo le decisioni prese nel tempo, ma anche le possibili alternative, di quegli altri noi alle prese con sogni diversi.
Così, se penso al mio cammino di orientamento tra adolescenza ed età adulta, vedo un nesso tra idee e passioni realizzate e non: fare l’archeologo, l’avvocato o lo psicologo sono state scelte accantonate per gli studi filosofici, ma che già contenevano il bisogno di capire, di conoscere, di andare a fondo, di “scavare”. In questa continua e sempre aperta ricerca, il corso di laurea in Filosofia è stato un punto di incontro fra tante tensioni e piste, dalla letteratura all’arte, fino ad arrivare alle scienze.
Gli anni dell’università non sono solo ciò che preparano al mondo del lavoro o la scansione temporale di dati ed esami da sostenere, ma un periodo irripetibile in cui cercando di capire il mondo si interroga anche se stessi. I diritti umani sono poi diventati il cuore della seconda parte della mia formazione, a partire dai corsi svolti con i professori Papisca e Mascia. Fu in quegli anni che questi studi incontrarono in maniera nitida la mia passione per la Storia e per le storie.
In questo caso “scavare” ha significato, attraverso la ricerca d’archivio, ricostruire il nesso tra il globale, la Shoah, e il locale, ovvero i meccanismi messi in moto a livello territoriale. I lunghi anni dedicati prima all’internamento degli ebrei stranieri nel vicentino, poi alla loro fuga dal Veneto dopo l’8 settembre 1943 e ora agli internati nel padovano hanno costituito certamente una spinta a proseguire gli studi attraverso il corso di laurea in Scienze Storiche: un modo per approfondire, aggiornarsi e continuare a porre e a porsi domande.
Da questo punto di vista, la Shoah non è e non potrà mai essere un argomento tra gli altri perché, accanto all’analisi dei fatti, ci pone di fronte a profondi interrogativi sugli esseri umani”.
Ci racconti del suo approccio alla ricerca per il suo elaborato.
“La ricerca storica è fatta di lavoro d’archivio, oltre che di studio. In questo caso, la pandemia ha giocato un ruolo importante: ero all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, per interrogare i documenti sugli ebrei stranieri internati nel padovano e non solo, proprio nei giorni in cui la questione Covid-19 deflagrava e si registrava il primo decesso, quello di Adriano Trevisan, e per me il lockdown sarebbe poi andato a coincidere con il lavoro di studio e scrittura. Per fortuna avevo già effettuato le ricerche presso la Comunità ebraica, l’Archivio di Stato di Padova e gli archivi di alcuni comuni della provincia. Nei difficili mesi del confinamento, mi è stato comunque possibile entrare in contatto con alcuni parenti degli ebrei come la figlia di Oscar Szöllősi e quella di Fajwel Szajkowicz. Lo scambio di mail e materiali è stato davvero importante pur nella tragicità di quelle storie e della situazione sanitaria”.
Dall’introduzione del suo elaborato non può non trasparire la sua passione per l’arte; non a caso, nel 2006 cura l’organizzazione della mostra Dal rifugio all’inganno. Storie di ebrei internati in provincia di Vicenza. Oltre a ciò, si è cimentato anche nella scrittura non divulgativa, pubblicando nel 2015 il libro Vite in fuga. Gli ebrei di Font Ontario tra il silenzio degli Alleati e la persecuzione nazifascista. Ci parli di queste passioni.
“Da non specialista, posso solo dire che l’arte per me esercita un’attrazione estetica e concettuale: i molteplici linguaggi e le modalità che l’arte utilizza possono essere potenti chiavi di accesso al mondo, strumenti interpretativi da applicare anche in altri ambiti. Sono convinto che l’arte, la letteratura, la fotografia, il cinema, la musica possano continuare a parlarci laddove lo storico deve fermarsi: uno sguardo multi e interdisciplinare è essenziale davanti alla complessità del mondo.
Per la mostra inaugurata nel 2006, ho volutamente assunto un approccio prettamente storico: guidare chi è interessato a capire quanto avvenuto nei primi anni Quaranta, attraverso l’uso dei documenti d’archivio, tentando, ancora una volta, di raccontare le singole storie all’interno di un contesto di privazione di diritti e di persecuzione delle vite.
Nell’impostare l’installazione, ho fatto ricorso all’ordine tematico e cronologico eppure, anche se in maniera limitata e contestualmente ai vincoli dati dai diversi spazi espositivi in cui la mostra è stata ospitata, ho cercato di restituire suggestioni affiancando alla ricostruzione storica fotografie, valigie d’epoca contenenti oggetti o messaggi, mobili che ricordassero le case in cui vissero gli internati, come a ricostruire delle scene d’interni.
Per quanto concerne la scrittura, è uno degli strumenti principali per capire se stessi e il mondo: scrivere è per me una necessità. Il primo esito è stata la poesia, a cui devo moltissimo e che per molti anni è stata la mia ancora di salvezza. Oggi, dopo gli studi di filosofia e storia, quel linguaggio si confronta con un altro tipo di riflessioni.
Che cosa porta dell’esperienza formativa all’Università di Padova, oggi? Come si è evoluto il Suo percorso professionale, quali sono stati i momenti più significativi?
L’Università di Padova, con la fama che da sempre l’accompagna, è stata la prima scelta dopo la maturità, quando stavo per iscrivermi a Psicologia. Anni dopo, i corsi di formazione e la frequentazione del Centro di Ateneo per i Diritti Umani sono stati i passaggi di un lungo rapporto con l’Ateneo, che mi ha arricchito attraverso la qualità delle proposte, i lavori di gruppo e la solidità dei metodi.
Ho vissuto il corso di laurea in Scienze storiche da lavoratore e questo ha avuto un peso determinante, ma esami, ricerche nelle biblioteche e rapporti con i docenti sono stati comunque molto importanti. A Padova ho trovato accoglienza e apertura, che garantiscono anche ricchezza culturale.
Credo sarebbe un errore non riconoscere la centralità e necessità, in un mondo complesso, dell’apprendimento permanente: il conseguimento della laurea non dovrebbe essere concepito come un punto di arrivo, né si dovrebbero perdere la curiosità e la capacità di coltivare quegli interessi che permettano di costruire una persona completa. Diventa problematico, a mio avviso, raggiungere alti livelli di istruzione senza contemplare anche le competenze sociali e civiche.
Dialogando con un laureando, probabilmente sottolineerei l’importanza di vivere il tempo della stesura della tesi come un periodo di pienezza creativa, di espansione riflessiva, di approfondimento culturale e di ricerca. Credo che quei mesi siano tra i più importanti nella formazione umana e professionale. Un laureando in Scienze Storiche ha, inoltre, l’opportunità unica di portare con sé e condividere il metodo storico nell’approccio alla vita.
In quanto all’esperienza professionale, essermi trasferito in Veneto è stato un momento fondamentale e ricco di stimoli di riflessione, fra le quali quella sulle identità. Un ruolo speciale ha avuto l’esperienza come insegnante – considero poter insegnare un privilegio, ed è stato nei miei pensieri sin dall’inizio – in diverse scuole del vicentino e del padovano, permettendomi di sperimentare e di mettermi in gioco.
Il lavoro più recente presso gli Istituti Storici della Resistenza mi sta offrendo l’opportunità di coniugare in maniera ancor più continua ricerca e proposta didattica. Ricerca e studio, infatti, non andrebbero mai separate dall’insegnamento stesso”.
Qual è la domanda che nessuno le ha mai posto in un’intervista e a cui invece vorrebbe rispondere?
Forse quanto possano essere attuali le ricerche svolte – o meglio, quanto quegli studi possano aiutare a comprendere la lunga durata dei fenomeni e la permanenza di atteggiamenti e pensieri nel mondo che viviamo. Occorrerebbe una lunga discussione, ma sarebbe già un punto di partenza per avvicinare alla Storia (e alla Filosofia) gli studenti che si interrogano con curiosità e a volte con indignazione sui problemi del presente e con cui bisogna costruire una visione delle cose che vada in profondità e non si limiti alla descrizione dell’esistente.