«Creiamo materiali che normalmente non esistono e permettono terapie altrimenti impossibili». Intervista al Prof. Vincenzo Amendola, ricercatore di nanomedicina e vincitore del Premio “Maria Paola Belloni”
Vincenzo Amendola, Professore Associato di Chimica Fisica dei Materiali presso il Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova, verrà insignito il 12 ottobre 2021 del Premio “Maria Paola Belloni” per la ricerca in campo medico, biomedico e farmaceutico.
Cosa rappresenta per lei aver ricevuto questo riconoscimento?
È stato un grandissimo piacere, una di quelle cose che ti motiva e ti dà coraggio dopo aver incontrato tante difficoltà, scientifiche e non, legate al lavoro di ricercatore.
I premi sono sempre un onore e una gratificazione, non solo per chi fisicamente li riceve, ma per l’intera squadra di collaboratori che contribuiscono in modo multidisciplinare ad un unico risultato comune.
Nello specifico, ho particolarmente apprezzato questo Premio – direi forse che è uno dei più apprezzati in assoluto tra quelli ricevuti in passato – perché va a dare un riscontro a quello che è il sogno di ogni scienziato: fornire soluzioni utili ai problemi pratici che come persone e società incontriamo nella nostra quotidianità. In ambito biomedico, in special modo, non si può non sentirsi coinvolti e, di conseguenza, più fortemente motivati a raggiungere il migliore risultato possibile.
Quando ha intrapreso il percorso di laurea in Scienza dei Materiali all’Università di Padova cosa si aspettava? Quanto è stata utile la formazione che ha ricevuto?
Ho iniziato il corso in Scienza dei Materiali a Padova con un obiettivo: capire il mondo che ci circonda. Questa laurea ha infatti il pregio di fornire delle competenze in fisica e chimica per arrivare a spiegare la struttura della materia a livello microscopico-atomico.
Le mie aspettative sono state pienamente soddisfatte: gli studi mi hanno insegnato a correlare quello che vediamo con gli occhi a livello macroscopico con ciò che si nasconde al suo interno, a livello atomico, e a spiegare qualsiasi proprietà strutturale o funzionale, come il colore o gli odori, tramite la struttura atomica che compone quello specifico oggetto.
Ovviamente, una volta compresa la struttura atomica della materia, si può provare a sfruttarla per dare una risposta a dei problemi pratici: si apre a quel punto la possibilità di inventare materiali nuovi, con caratteristiche che nessuno aveva mai pensato o provato a realizzare in precedenza. Questo percorso di studi mi ha portato proprio qui: la qualità della formazione ricevuta in aula e in laboratorio didattico è stata fondamentale, come punto di partenza per un percorso arricchitosi poi negli anni con l’esperienza sul campo.
Qual è, a suo parere, la consapevolezza della cittadinanza nei confronti dell’importanza della ricerca? Si tratta di attività sottovalutate, o tenute dovutamente in considerazione?
È una domanda molto difficile alla quale rispondere, soprattutto dopo molti anni di attività nell’accademia. Innanzitutto, l’attività di ricerca e le modalità con cui viene condotta risentono molto dei cambiamenti della società nel corso del tempo.
Trent’anni fa poteva avere senso che un piccolo gruppo di ricerca dedicasse periodi lunghi, anche cinque anni o di più, in un progetto di ricerca, prima di farne uscire i risultati, discuterli e consolidarli all’interno della comunità scientifica. Adesso, data una comunità scientifica così ampia e in così rapida evoluzione, data la varietà di tecniche e punti di vista diversi che si trovano in ogni punto del mondo, ci si pone la domanda: “è meglio ritardare la ricerca per renderla più completa, o suddividerla in parti minori da rendere via via accessibili, così da stimolare continuamente questo grande network globale che si alimenta delle novità, ricomponendole ed elaborandole?”.
Quali sono state le principali difficoltà incontrate lavorando al suo progetto?
Ci sono state difficoltà sia di tipo tecnico-scientifico, che legate all’ambiente di lavoro. Fortunatamente, posso dire con soddisfazione che l’Università di Padova è una grandissima Università, e finanzia in modo cospicuo e serio la ricerca, offrendo la possibilità – e di questo sono molto grado – di realizzare le proprie idee.
Due finanziamenti concessimi mi hanno permesso in primo luogo di applicare la tecnica di sintesi laser per accedere a diversi nanomateriali; in secondo luogo, con il progetto STARS [programma di finanziamento delle eccellenze nella ricerca, N.d.R.; info su https://www.unipd.it/stars] ho potuto applicare questa tecnica di sintesi alla nanomedicina.
I limiti di tipo tecnico, invece, li abbiamo trasformati in un circolo virtuoso: i primi risultati negativi in merito ai sistemi ipotizzati e sperimentati non ci hanno scoraggiato, ma stimolato a ricalibrare i nostri ragionamenti e assunzioni per migliorare l’esito finale.
Ci parli un po’ del tema del suo progetto: cos’è la nanomedicina e in cosa si differenzia dagli approcci medici tradizionali? Come ha trovato applicazione grazie al suo gruppo di ricerca?
La nanomedicina utilizza oggetti di dimensioni nanometriche (le nanoparticelle) per finalità mediche.
Ci sono due aspetti promettenti delle nanoparticelle a uso medico: in primo luogo, le dimensioni ridotte permettono a questi oggetti di accumularsi e raggiungere zone dell’organismo altrimenti inaccessibili.
In secondo luogo, le dimensioni nanometriche sono abbastanza grandi da consentire di includere più funzioni nella stessa medicina: per esempio, migliorare l’imaging in fase diagnostica e trattare una lesione tumorale in fase terapeutica, o permettere tipologie diverse di imaging; è molto raro, invece, che la medicina molecolare tradizionale abbia più funzioni contemporaneamente.
Nel mio gruppo utilizziamo una tecnica detta di ablazione laser, che orienta un laser a impulsi verso una lamina immersa in un liquido, per produrre specifiche nanoparticelle a uso medico. Questa tecnica consente di combinare elementi che normalmente non sarebbero inclini a stare insieme, grazie al fatto che dopo l’ablazione laser si ottiene il rapido congelamento dei nanomateriali prodotti… si crea così la possibilità di ottenere materiali totalmente inediti.
Altri pregi rilevanti di tale tecnica è che riduce al minimo gli inquinanti e non produce sostanze tossiche, oltre ad essere economica e, come abbiamo dimostrato, totalmente automatizzabile.
La mia sfida personale adesso è trovare finanziamenti per la ricerca sulle applicazioni terapeutiche delle leghe biodegradabili multifunzionali.
I contributi della nanomedicina si hanno anche nella ricerca contro il Coronavirus?
Nell’ambito del trattamento di infezioni virali, ancora non ci siamo. I virus si replicano con fattori esponenziali all’interno di tutto l’organismo, pensare di interagirvi con delle nanomedicine somministrate in modo limitato e localizzato è molto difficile.
Sono comunque state valutate le capacità antivirali delle nanoparticelle, dei nanomateriali e delle loro possibilità di legarsi ai virus per ricoprire la superficie e inibirne la capacità di replicazione.
Un ambito in cui invece le nanoparticelle stanno dando un contributo importantissimo è quello della diagnosi del Covid: i test antigenici, rapidi, e salivari al loro interno sfruttano delle nanoparticelle colorate che migrano all’interno del tester, per cui possiamo dire che, contro Covid-19, le nanotecnologie sono state in prima linea fin dall’inizio.
Pensare in piccolo per pensare in grande: le nanotecnologie
Martedì 12 ottobre 2021, ore 18:00, Vincenzo Amendola verrà insignito del Premio “Maria Paola Belloni”, e parteciperà come relatore a una tavola rotonda sulle nanotecnologie all’interno del Galileo Festival.
Per maggiori informazioni e iscrizioni: